Rigonia #9 – Rigonia sogna: Doppio sogno

1

Aprendo gli occhi, realizzo di essermi appisolato a letto. Un letto molto grande e molto comodo. Sento un telefono squillare. Istintivamente, sollevo la cornetta. Una voce, all’altro capo, mentre io sto ancora cercando di realizzare dove mi trovi, mi dice «Appuntamento a mezzanotte, puntuale. Indossa il completo nell’armadio» e poi riaggancia. Senza un ciao, un buonasera. Senza poter chiedere di chi fosse, all’altro capo, quella voce femminile così elegante e decisa. Riaggancio. Io non ho un telefono in camera. Non possiedo nemmeno più un telefono fisso. Non sono a casa mia. Forse non è nemmeno Torino. Da fuori arriva un curioso rumore di delicato sciabordio e un leggero odore di umidità, e… di sale? Può darsi che io sia. Mi alzo abbastanza velocemente e mi affaccio alla finestra. È buio. È sera. È Venezia. C’è un brusio di persone molto eleganti che passano proprio sotto all’edificio dove mi trovo, e che chiacchierano tra di loro. Una folla educata che riesce a fare rumore senza disturbare nessuno. Cosa ci faccio, qui? Come ci sono arrivato? La stanza è molto grande, e bella. È una stanza di albergo. Una grossa stanza, che comprende una camera da letto ma anche un elegante e piccolo soggiorno. Su un tavolino basso, di vetro, davanti a due poltrone dalle fodere color panna, ci sono due flute, con unghia di spumante avanzato. Guardo l’ora: sono le nove e mezza di sera, minuto più, minuto meno. Mi faccio una doccia, perché mi sento ancora addosso la stanchezza. Ho bisogno di schiarirmi le idee, ho bisogno di orientarmi, ho bisogno di riprendere il controllo della situazione. Ricordo di un appuntamento, di una persona importante da visitare. Ricordo un viaggio in aereo. Ricordo degli occhi femminili, un abito da sera. Ricordo un viaggio attraverso l’amore e i rumori di una fitta foresta equatoriale. L’acqua calda aiuta a distendermi. Vorrei non uscire di qui. Le creme da bagno dell’albergo hanno un bell’odore, molto elegante. Spero che io non debba pagarmi questo benessere. Non me lo sono mai potuto permettere. Quando esco dalla doccia, mi dirigo verso l’armadio. Dovrebbero esserci i miei vestiti. C’è un bellissimo completo scuro da sera, una camicia bianca, una cravatta slim, con una leggera iridescenza. Calzini, scarpe, cintura. E un oggetto che non mi aspettavo: un’imbragatura, con la fondina di una pistola. Tiro fuori i vestiti, la pistola la lascio lì. Mi vesto con calma, che tanto c’è tempo. Nella tasca interna della giacca c’è un portatessere. Dentro c’è una carta di credito e un curioso biglietto da visita amaranto, con un cerchio nero al centro, e dentro al cerchio un altro più piccolo, bianco. E nient’altro. Anche nelle tasche dei pantaloni trovo qualcosa. In una c’è una piccola chiave, che non credo sia quella della stanza, a cui è agganciato, con un piccolo anellino, un oggetto di argento, che assomiglia a un flauto, o un cannocchiale, non lo capisco bene neppure. Nell’altra tasca c’è un foglietto di carta, con un messaggio stampato in carattere garamond, molto essenziale, elegante: “Prendi anche la pistola” dice. Lo guardo un po’ perplesso. Chiunque abbia architettato questa sceneggiata deve conoscermi molto bene. D’accordo, allora: prendiamo anche la pistola. Mi tolgo la giacca e mi allaccio l’imbracatura con la fondina sopra la camicia. Poi indosso la giacca. È tutto su misura, e calza a pennello. Anche l’imbragatura è comoda, non la sento nemmeno addosso. Metto la mano dentro la giacca e impugno l’arma. La estraggo. La osservo. Pensavo che mi sarei trovato a disagio a tenerla in mano, e invece nulla, anzi. L’arma è ben bilanciata, comoda. È carica, la sicura inserita. Mi sento più tranquillo. Sono le dieci e un quarto. È arrivato il momento di scendere.

2

La signorina all’accoglienza dell’albergo è davvero molto bella e ben vestita. Avvicinandomi a letto, spero sempre più intensamente a non dover ritrovarmi a pagare la permanenza in albergo. Lei non fa una piega, mi sfodera un sorriso scintillante e bellissimo, e con una voce elegante e cordialissima mi dice che sono arrivato in perfetto orario, e che il mio trasporto è arrivato per prelevarmi proprio in questo momento. Mi chiede la chiave dell’albergo e mi augura una buona serata. Io cerco di mostrarmi il più disinvolto possibile, mentre sento il calcio della pistola appoggiato dolcemente alle costole e mi dirigo verso l’uscita col passo meno affrettato che posso. Allontanandomi, sento la ragazza rivolgersi a qualcun altro in una lingua che sembrerebbe giapponese. A un passo dalla porta, mi accorgo di qualcos’altro che sbatte sul mio petto, dentro la giacca. Mi ficco una mano in tasca. È un pacchetto di sigarette. Una benedizione dal cielo. È già aperto. Dentro c’è una sigaretta capovolta. Faccio per prendere proprio quella, un po’ incuriosito. E una voce vicino a me, con molta gentilezza mi dice: «No, signore. Quella è per dopo». Mi volto e vedo un personaggio distinto, vestito anche lui in modo molto elegante, molto curato anche nell’aspetto. Mi porge un accendino, e mi dice: prego. Io afferro una delle sigarette “normali” del pacchetto, e mi accendo la sigaretta. Dopo di che richiude il coperchio dell’accendino. «È suo» mi fa «Le servirà poi». In effetti non ho accendini con me. Poi mi dice: «Andiamo?» e mi fa cenno di seguirlo. Continuo a far finta che sia tutto perfettamente normale. Faccio un tiro, chiudo gli occhi, lascio che il fumo mi rovini i polmoni e mi schianti la pressione. Mi godo il sapore del tabacco nel naso e nella gola. Mi aiuta a riacquistare un po’ il controllo della situazione. Dopo la doccia era passata poco più di una mezzoretta, e di nuovo avevo perso la cognizione di quanto mi stesse accadendo. «Non si preoccupi se si sente un po’ spaesato?» mi dice l’uomo «È assolutamente normale. Era previsto». Ho già detto che quest’uomo parla un perfetto francese, e che io lo capisco altrettanto perfettamente, e sono in grado di rispondergli? «Il mio nome è Richard, monsieur. Sono qui per accompagnarla al suo appuntamento. Se lei è pronto, possiamo partire». Ha degli occhi neri molto intensi, un accenno di barba scura, un fisico slanciato. Un uomo bellissimo, dall’aria sicura. Giovane, ma non giovanissimo. Più giovane di me? Non più di tanto. Mi volto per guardare le persone che vanno e vengono. Questa calle è parecchio affolata, ma le persone hanno tutte un’aria altolocata: ben vestiti, ben educati, bel portamento. Ma dove cazzo sono finito? «Andiamo?» mi dice Richard, e mi invita a salire in gondola. Continuo a pretendere che vada tutto bene. Salgo a bordo, mi siedo. Mi accendo la seconda sigaretta. La prima è di assestamento. La seconda è per darmi un tono. Richard mi guarda con un sorriso brillante. Ma ci sta provando con me? Afferra il remo, sospinge la barca verso il centro del canale, e comincia a remare. Condurre una gondola sembrerebbe una cosa faticosa, ma evidentemente Richard è una persona ben allenata, perché non sembra fare alcuno sforzo. Il parecio è comodo, il canon è acceso e illumina il nostro percorso. Non ho idea di dove stia andando.

3

Una parte di me si trova perfettamente a proprio agio nella situazione. Una parte di me che, in tutta onestà, non conoscevo. Si guarda attorno, osserva, con molta calma ma anche con molta attenzione. Si gode il panorama e assieme ne tiene traccia. Non conosco Venezia, non so dove stiamo andando, non mi sembra che ci troviamo ad attraversare nessuno dei più acclamati percorsi turistici. Mi sembra invece che il viaggio sia dentro il labirinto che è Venezia, la città delle poesie e del mistero. Le città degli intrighi. Lungo le calle, dove ci sono i passeggiamenti, comincio a vedere le prime maschere. Suggestive, inquietanti. Le mura verticali celano e proteggono i pensieri di questi uomini e queste donne che sembrano più fantasmi che persone, che sembrano più spiriti che umani, che sembrano partecipare a un intrico di vicende e di macchinazioni troppo elaborato per essere del tutto afferrato. Mi lascio trasportare dalla magia, e dal silenzio. È una serata tranquilla e il cielo è limpido. Richard rema con decisione e dolcezza, sa esattamente quello che deve fare e come farlo. Comincio a sentire una leggera eccitazione, un formicolio, la consapevolezza di essere entrato dentro un disegno molto più grande di me. Un’avventura. Il pericolo non mi spaventa più, anzi, un poco lo desiderio. Senza pericolo, sento che questa serata non potrà dirsi completa. Senza pericolo, sento che questo viaggio strano, questa sensazione persistente di deja vu, andrà sprecata. Dev’esserci il pericolo, dev’esserci, anzi, un attraversamento. Non so cosa voglia dire, ma so che c’entra con dei ricordi un po’ vaghi, di un automobile che sfreccia lungo un’autostrada deserta, e i colpi di un fucile che rimbombano nel silenzio. Chi sono io? Forse una maschera? Forse la persona che ho visto allo specchio, qualche decina di minuto fa, è anch’essa un inganno, una proiezione? Cosa devo farmene della pistola che porto con me? Chi è che si sta prendendo la briga di coinvolgere in questa trama? È un gioco di ruolo? L’ho organizzato io stesso? È una qualche forma di intrattenimento mondano? La pistola sparerà veramente? Una parte di me dice di sì, e non so proprio come faccia a saperlo. La gondola si appoggia delicatamente al bordo di una calle. Richard, come un grosso felino, balza fuori dalla barca. Delicato, fulmineo. Mi porge la mano, io mi alzo, mi lascio accompagnare fuori, poggio un passo sul marciapiede. Sento il corpo che si era già abituato al beccheggio. Richard si occupa di assicurare la gondola a un palo che sprofonda nell’acqua. Io ne approfitto per accendermi un’altra sigaretta. Poi, con i suoi modi affabili, Richard mi invita a seguirlo. Questa sua eleganza, questa sua precisione, adesso mi ha un po’ rotto il cazzo. Mi sta venendo voglia di sparargli, a Richard.

4

Il mio impeccabile accompagnatore mi lascia d’innanzi all’ingresso di un edificio dall’aria molto distinta e antica. Bussa due colpi, e una porta si apre. Resta aperta a poco meno della metà. Dentro c’è una persona, avvolta nell’ombra. Non la riesco a distinguere. «Tessera», mi dice. Io sono preso dall’inquadrare la sua figura, e allora lui è costretto a ripetere: «Tessera!» tradendo una certa impazienza. Io mi risveglio dalla mia trance, e sfoderando un sorriso mi ficco la mano dentro la giacca e tiro fuori il biglietto da visita amaranto. Lui lo prende. Lo guarda, poi guarda Richard: «È lui» dice, e mi fa entrare. Mi volto verso Richard, che entra con me. Mi fa il suo solito sorriso gentile e accomodante, e comincio a pensare che Richard non esista affatto, che non esistono persone così addestrate al garbo. Non faccio in tempo a dirlo che, da un secondo all’altro, Richard lo perdo di vista. E mi ritrovo in questo grande palazzo da solo. L’edificio è antico, senz’altro. L’uomo che mi ha fatto entrare veste in nero e non ha una bella faccia. Non ha l’aria sorridente e sembra prodotto con gli avanzi genetici di quello che è stato usato per fabbricare Richard. Sarà per questa ragione che un po’ mi sta simpatico. Il soffito è molto alto, le pareti sono affrescate di disegni che scorgo a fatica. Dall’alto calano eleganti lampadari di cristallo accesi per l’occasione. L’uomo mi passa davanti e mi dice «Da questa parte». Ha dei modi frettolosi che fanno un po’ pena. Che fretta dovrebbe averci, non lo so. Forse sta arrivando parecchia gente, forse gli scoccia servire il prossimo – o forse la sua mamma l’ha fatto così. Percorriamo a metà un lungo corridoio, e poi all’improvviso si ferma, e fa un passo verso destra, all’altezza di una grande specchiera. con una mano guanta, spinge con molta precisione e rapidità la superficie del vetro, e quella fa un dolce scattino, e si apre come se accompagnata da una molla. «Prego» mi dice. Mi porge un oggetto. Una maschera. Lo guardo perplesso. «La indossi» mi dice. Non ci posso credere. Sta succedendo veramente. Indosso la maschera. «Da questa parte» mi dice, e attraverso la soglia della porta dietro lo specchio. Una volta entrato, la porta si richiude alle mie spalle. La scena cambia sensibilmente. Cos’è quel posto, dove mi trovo? In cosa sono andato a cacciarmi? Un grande salone delle feste, di quelli che non pensavo che avrei mai visto utilizzato per i suoi antichi scopi, gremito di persone, tutte rigorosamente mascherate, tutte in abito di gala. Ci sono divanetti di velluto, tavole a cui farsi riempire il bicchiere, musica a tutto volume – e uomini e donne, giovani, belli, mascherati, e senza vestiti.

5

Una ragazza mi prende sotto braccio, dal lato della pistola. Non fa una piega. Indossa solo lingerie – e la maschera. Mi saluta, mi dice che lui mi sta aspettando. Dalle fessure degli occhi ci sono degli occhi verdi che scintillano. Le sue labbra sono morbide e i suoi capelli e la sua pelle sono profumati. Mi sento a disagio. Mi sento degli occhi puntati addosso. C’è della gente, tra gli ospiti della serata, che non sembrano contenti di vedermi con lei. Dev’essere una donna dai molti amanti, dev’essere una situazione fastidiosa, per chi magari ti rincorre e ti brama, vederti a contatto con uno sconosciuto, con questa naturalezza, con questa disinvoltura, con questo desiderio. Mi parla a pochi centrimetri dal viso. Mi sussura. Mi dice che la serata non poteva iniziare veramente senza di me, ma che ero in anticipo, che l’appuntamento era per la mezzanotte. Lei è la voce che mi parlava al telefono. La riconosco. Sorrido tra me e me pensando che magari, quando ci eravamo parlati la prima volta, lei portava la stessa mise: tacchi a spillo, mutandine e reggiseno neri, e la maschera? Sì, anche la maschera. «Vedo che stai cominciando ad ambientarti» mi dice divertita. E io mi irrigidisco un po’ al pensiero che possa leggermi nella mente. Ci fissiamo per un secondo. Lei sorride con tutto il viso, e io le restituisco la cortesia. Mi porta in una stanza più piccola, con le luci più soffuse. Non siamo soli. Ci saranno una quindicina di persone. Ci sono quattro o cinque tra questi giovani ragazzi e ragazze che intrattengono gli ospiti. Alcuni indossano la biancheria intima, altri sono completamente nudi. Una ragazza è addirittura senza scarpe e balla sopra una piccola pedana circolare. Le persone vestite sono molto eterogenee. Ci sono uomini, ma anche donne, e di età abbastanza differenti. La parte di me che osserva con attenzione le cose si rende conto che a ogni angolo ci sono persone che non sono lì né per intrattenere, né per divertirsi, ma per sorvegliare. Sono molto anonimi, molto attenti e molto seri. Chiunque organizzi questi festini deve avere molti soldi da spendere, perché hanno l’aria di essere professionisti. Come faccia io a capire o a sapere queste cose, proprio non lo so. Il tempo che la mia accompagnatrice mi ha fatto accomodare su un divanetto e si è allontanata, e un’altra ragazza mi si è avvicinata, salutandomi e porgendomi un bicchiere. È senza reggiseno. Perdiamo qualche minuto a fare conoscenza e a sorseggiare il nostro vino. A un certo punto mi viene in mente di chiederle da quanto tempo lavorava lì e lei con estrema naturalezza mi ha detto che lei lì non ci lavorava mica. «Lo pensi perché sono nuda, vero? Tra non molto di gente vestita ne resterà ben poca, vedrai». In effetti, mi rendo conto che c’è in attacco una specie di sereno spogliarello, tra tutti gli avventori. Una signora che avevo notato, adesso è senza le scarpe. Due tizi che sbavano guardando la ragazza nuda che balla sulla pedana non indossano più le giacche. Uno in un angolo, prima mi sembrava avesse i pantaloni, e adesso gira con i reggicalze al vento. Non faccio in tempo a restituire l’attenzione alla mia interlocutrice, che non è più vicino a me. La vedo scomparire dentro un’altra stanza. In compenso, la ragazza dagli occhi verdi ha fatto ritorno, e mi porge la mano. «È arrivato il momento».

6

«Come ti chiami?» «Puoi chiamarmi Percy» Apre una porta nel muro che finora non avevo visto. Entriamo in corridoio molto buio. Mi prende per mano «Non lasciarmi» adesso camminiamo veloci ma la sua stretta è forte. Mi sembra di camminare molto a lungo. Mi sembra che sia sempre più buio. I miei occhi si abituano all’oscurità, ma non capisco quello che vedo. Il corridoio mi sembra di essere molto più stretto di quello che era in precedenza ma non perché si sia effettivamente ristretto lo spazio, ma perché mi sembra che io e lei non siamo soli. Sento il respiro di qualcos’altro, più di un respiro, più di qualcuno. Oh dio, ma non sono forse… Percy evidentemente percepisce la mia esitazione e la mia curiosità. Accelera il passo. Apre una porta di scatto. Dal suo interno un fascio di luce ci invade e mi acceca, per un secondo. Percy mi conduce dentro la stanza con decisione, con vigore. Io provo a voltarmi, perché sono curioso, e voglio capire. Dentro il corridoio sembra essersi creata una gran confusione. Sento lo sbattere di qualcosa che sembrano ali, vedo sagome lunghe quanto il mio braccio. Ma la porta si richiude dietro di noi molto velocemente e io del corridoio ho potuto dare che una fugace occhiaia. La stanza è luminosa. Il soffitto, come nel resto del palazzo, molto alto. Dovrebbe fare più freddo, e invece si sta bene. In centro c’è un grosso divano, senza bracioli, quadrati. In verità, sembrerebbe un letto, a me però sembra strano vedere un letto in quella circostanza. E poi c’è una sedia, una specie di grossa poltrona, mi verrebbe da dire un trono – e due gruppetti di donne e uomini nudi ai lati della stanza, che si fanno i fatti propri. Ballano, chiacchierano, entrano ed escono. E poi c’è lui. E lui è un flash, come un pugno in faccia. Lo riconosco, ci siamo già conosciuti, ma non ricordo dove, non ricordo perché. Ha lunghi capelli neri, lisci, sottili, curatissimi, labbra sottili, un sorriso suadente, e occhi che sembrano nocciola, ma più chiari, tendente al rossiccio. L’ho visto nei miei sogni. Era al drugstore, durante il mio viaggio lungo l’America – ed era nella foresta, e poi al club degli industriali. Prima non era un uomo, e poi lo era. «Finalmente» mi ha detto, e io sono come paralizzato. Mi ha dato la caccia finora? Oppure sono io ad aver seguito lui? Alle sue spalle una figura familiare sbuca da uno dei tanti ingressi che sembrano esserci e non esserci a seconda delle necessità. È Richard, ed è completamente nudo. Non so cosa ci sia lui, ma vederlo senza abiti mi produce un’emozione strana, come di familiarità, e anche di stima, apprezzamento. «Si chiama attrazione» mi dice l’uomo dai lunghi capelli. Io istintivamente reagisco rifiutando il pensiero, ma so che ha ragione. Cerco di mantenere la sicurezza, di ostentare tranquillità, ma sono molto agitato, e confuso, e anche arrabbiato. La pistola, al mio fianco, prima inerte, se non addirittura confortevole, adesso brucia, e mi fa male, e mi sembra quasi di sentirla urlare.

7

«Io devo dirti la verità. E la verità è che non ho molto da dirti». Così mi parla lo Straniero. Decido di chiamarlo così, anche se non è quello che provo davanti a lui. Ben altra è la sensazione, di estrema familiarità. Non di attrazione, non come Richard, affatto. Di consanguineità. Io sono lui e lui è me – e non so come questo sia possibile. «L’unica cosa che tu devi veramente sapere, è che tutto questo è destinato a te. Puoi averlo. Stasera». Lo guardo e non riesco a celare la mia confusione. Cosa diavolo sta dicendo? «Il palazzo, le persone. Tutto. Si tratta solo di pochi istanti». Sento rintoccare un orologio, un pendolo. Non so da dove arrivi. Non vedo pendoli. A parte i tavoli, le pedane, i divani, i letti, le lampade e i lampadari, io non ho visto altro, né cassettiere né suppellettili. Non saprei dire nemmeno da dove arriva la musica. Richard, intanto, è salito su questo grande letto dalle lenzuola del colore della mia tessera. Istintivamente, infilo una mano dentro la giacca e prendo le sigarette. Me ne accendo una, di riflesso. Ma quella si spegne. Tiro, ma non viene su niente, se non quell’orribile sapore di cenere che ha una sigaretta quando finisce. «Non puoi fare così, non ora». Lo Straniero mi fissa negli occhi e mi mette a disagio. Per due motivi: il primo è che sembra davvero conoscermi, e io non so nulla di lui. E il secondo è che sorride sempre. La sua voce è elegante, e affabile. E gentile. Sento una mano che entra nella giacca. È di Percy. Prende il pacchetto di sigarette. Lo apre. Prende la sigaretta rovesciata. Se la mette in bocca. «Hai da accendere?» mi dice. Io le accendo la sigaretta. Lei inspira di gusto, e mi sorride, con sfida. Poi mi dà le spalle, e si avvicina al grande letto rosso scuro. Si sfila il reggiseno. Richard la guarda con uno sguardo di grandissima intesa. Le prende la sigaretta dalla bocca, e fa una tirata anche lui, mentre lei toglie le scarpe, e sale a letto. Una tirata lei, una tirata lui. Poi la sigaretta la buttano via, e si baciano. Io mi sento divampare dalla gelosia. Odio lei e odio lui. Mi stanno tradendo. Lei con lui, e lui con lei. Una parte di me inghiotte un boccone così amaro che lo sento scendere a fatica, quasi non voglia. Lo Straniero mi fissa, senza parlare. In fondo aveva ragione. Non aveva molto da dirmi. Senza togliermi gli occhi di dosso, si mette una mano dietro la schiena. Ne tira fuori un pugnale, molto essenziale, ma con una lama molto lunga. La porge a Percy, che senza distogliersi dalla sua attività erotica lo afferra dal manico. Poi, con un movimento unico, velocissimo, da leonessa, con una piroetta si porta alle spalle di Richard, e col pugnale gli apre uno squarcio in gola, da parte a parte. Mi sento mancare. Cosa diavolo sta succedendo? Cosa diavolo sta succedendo! Vorrei gridare, ma la voce non mi esce dalla bocca. La ragazza porge il pugnale allo Straniero. So già cosa sta accadere. Vorrei urlare “no” ma il grido mi si strozza in gola. Lo Straniero prende il pugnale, e fa a Percy ciò che Percy aveva fatto a Richard. Percy non ha un singolo gesto di ribellione. Copioso il sangue sgorga dal taglio dei due amanti, e man mano che quello sgorga, i loro corpi sembrano perdere sostanza, e consistenza, quasi a sgonfiarsi, in una nuvola di fumo, e a sparire. Ecco, allora, il grido, che mi esce con tutta la forza. A quel punto, tutto d’ura la furia di un istante. Estraggo la pistola e sparo, sparo più volte. Lo straniero, crivellato di colpi cade a terra, senza un sussulto, con quel sorriso affabile ancora stampato sulla bocca. Sento delle braccia robuste avvolgersi attorno a me. Gli uomini e le donne nella stanza, che fino a un momento fa sembravano del tutto interessati a quello che stava accadendo, mi afferrano con forza. Mi sento completamente immobilizzato. Non capisco le braccia e le mani dove inizino e dove finiscano, se di uomo o di donna. E mi sento trascinare via, a forza, di spalle, non so in quale direzione, molto velocemente. E sento anche proteste, e urla, e agitazione. La musica si è interrotta, sento porte che sbattono, e rumore di passi e concitazione, proeccupazione, angoscia, rabbia. Sento tutto questo mentre vengo trascinato via, con forza, sempre nella direzione opposta al mio sguardo. E poi, all’improvviso, mi sento cadere, come se mi avessero lanciato da una finestra. E attendo di atterrare, sull’acqua del canale, ma quella l’atterraggio non sembra avvenire mai. E cado, cado, cado…

Epilogo

Di soprassalto, sono sveglio, ancora una volta. Sono sul treno. Fuori la luce sta diradando. Presto sarà buio. Quante fermate mancano? Riconosco il paesaggio di campagna grigia, là fuori. Una fermata, al massimo due. Ho ancora le cuffie nelle orecchie. C’è la radio. Parlano di rigori, di tatticismi. Non lo so, non capisco, chi se ne frega. Mi sarò addormentato con le partite. Spengo. Mi tolgo le cuffie. Ho il libro sulle gambe, aperto. Un romanzaccio, un giallo. Quindici euro buttati. Ho già capito chi è stato. Chiudo il libro, lo rimetto nello zaino. Non è rimasto quasi nessuno nel treno. Sono tutti silenziosi, tutti guardano il vuoto. Succede sempre così, quando il viaggio è lungo. Mi sento un po’ sudaticcio, e un po’ agitato. Devo aver sognato. Ho degli echi, dei ricordi nella mente. Sento il rumore di uno sparo, sento ridere, ricordo degli sguardi intensi, di occhi che mi fissano con attenzione. Ma i ricordi un poco alla volta si dissolvono. Mi metto le mani in tasca. Ho finito le sigarette. Niente fumo quando scendo. Poco male. Afferro il telefono. Chiamo a casa per avvisare che sono quasi arrivato. Sento squillare.

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