CHAOS

by Emanuela Miconi

Il tema del caos mi affascina, con il prof Rossi abbiamo lavorato tantissimo sulla dimensione irrazionale della cultura antica e ti garantisco che tutta questa capacità di “autodominio” i Greci proprio non ce l’avevano: ovunque, nel mito, nella letteratura, nella religione, nei rituali misterici  emerge….l’abisso! con una specie di pre-veggenza? O la mia solita telepatia, mercoledì scorso ho “ritirato” uno sconto-punti da Feltrinelli e ho comprato un cofanetto con tre volumi di Giulio Guidorizzi (un bravissimo grecista), I greci e l’anima: ovvero vol.I I greci e la follia, vol II i greci e il sogno, Vol III I greci e le passioni!!!!! Avevo anche gli appunti di un breve intervento ad un convegno, ma al momento non li trovo (devo impegnarmi di più a passare in rassegna le cartelle); qualche studioso(ad es. il grande Giorgio Colli) addirittura sostiene che tutta la cultura greca sia originata dalla follia (la divina “mania” molto più vicina ai meandri tenebrosi del Kaos che non all’ordinato Kosmos)) ispirata dagli dei e che Platone e Aristotele, con la loro esaltazione del potere della Ragione,  ne siano, non gli inizi, ma gli epigoni!!! E la “vera” filosofia sia invece quella dei pre-socratici, dei quali purtroppo non abbiamo che pochi frammenti! Vabbè, su questo argomento se attacco…non mi fermo più, peccato che Rossi ormai, con gli anni i suoi problemi di salute, non si muova più…..avrebbe fatto faville, in un’occasione del genere tenendoci inchiodati fino a notte fonda  a parlarci degli iniziati di Eleusi, il sogno di Persefone, i viaggi nell’Ade, lo sguardo sul Kaos di Eraclito e Pitagora,  gli sballi allucinogeni dei  poeti orfici e i misteri di Samotracia, etc. etc.

Intervista a Giorgio Colli.

Sempre grato sarò all’anonimo professore di filosofia del liceo. Solo ora ne intuisco il
risuono della frustrazione: cognome dal sentore metallico (Ariano), il prof viveva alla
periferia di Torino, palazzi incolonnati, all’epoca, venti e passa anni fa, preda dello
spaccio e del sopruso. Insegnava in un liceo scientifico – il mio – conficcato in un
paese nella cinta torinese, la periferia del periferico, dove i ragazzi rovesciano il
banco in faccia ai prof, media di 8-9 bocciati ad annata nel primo biennio, un alcova
di perdenti e di perduti. Il prof aveva adottato una bimba dall’Africa e aveva lo spirito
del missionario. Non faceva lezione: si lanciava in spericolate – e incomprensibili – corsi
monografici. Un giorno accennò a un libro. Indispensabile, disse. La nascita della
filosofia di tale Giorgio Colli. Copertina gialla, un magnetico Adelphi, 116 pagine,
giurava il prof, in cui è riposta la quintessenza di ciò che bisogna sapere. Avevo 16
anni. Corsi in libreria, che già allora era la mia naturale foresta – nel mio paese non c’era,
piglio l’autobus, mezz’ora di frastuono, Torino, la mecca del bulimico di libri.

Ultima frase del primo capitolo – di cui non avevo capito nulla. “La
follia è la matrice della sapienza”. La frase mi s’incide in faccia con una potenza
definitiva. Ogni tanto telefonavo al mio amico unico, Jonathan – oggi acclamato medico
della mutua e dello sport – e gli leggevo delle frasi dal libro. “Sapiente è chi getta luce
nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa l’incerto”; “per il
sapiente l’enigma è una sfida mortale”. Ammetto: non eravamo dei geni né dei
giganti. Di quel libro, che mi pareva meraviglioso, con frasi che scagliavano un ragazzino
di periferia nel cuore del cosmo e del tempo, non capivo cosa. Ma – questo lo sapevo
dalla poesia, che già mi aveva ghermito, con Dylan Thomas, William Blake, William B.
Yeats – non conta capire, quanto sentire, amare. Il libello di Colli mi tornò in mano
all’università. E fu una indisciplinata avventura del sapere. Il primo passo verso
l’avventato Everest di un pensiero selvatico. I “quaderni postumi” di Colli, raccolti nel
1982 da Adelphi come La ragione errabonda, furono il mio nutrimento, il cibo di uno che
ausculta il linguaggio, sa di essere niente ma sa i suoni, il frinire di una frase. Amo
l’indipendenza austera del pensiero di Colli, che si esprime in cunei di aristocratica e
articolata rivolta (“L’educazione dev’essere sottratta all’Università. La scuola non può
essere riformata, ma solo combattuta”; “Non si deve permettere di deridere la
cultura: condizione per questo è di mettere fuori legge i rappresentanti della

cultura”) e mi sono fatto il cervello – idiozia congenita permettendo – addestrandomi, a
ritroso, sulla sua ‘Enciclopedia di autori classici’, la collana, di madornale bellezza, curata,
dal 1958, per Boringhieri, dove allo stesso tavolo stavano Nietzsche e Hölderlin, Leopardi
e Isaac Newton, Gorgia e Abhinavagupta, l’arciprete Avvakum e il “canone buddhistico” e
Stendhal e Tucidide e Freud e la cabbala ebraica, secondo una visione anticulturale,
onnivora, sapiente, che mi ricorda, in altro campo, il ‘Museo immaginario’ di André
Malraux. Ma io, appunto, sono solo un lettore vagabondo, uno stregone di immaginari.
Federica Montevecchi, filosofa, autrice, con Vittorio Foa, di Le parole della politica
(Einaudi, 2008), ha scritto, per Bollati Boringhieri, la Biografia intellettuale di Giorgio Colli e
quest’anno, per Luca Sossella Editore, è uscita con un libro minimo (66 pagine per 9 euro)
ma decisivo, Sull’Empedocle di Giorgio Colli. Le prime venti pagine del pamphlet sono
uno straordinario compendio all’opera culturale di Colli, delineando le liti e le
perplessità in seno a Einaudi, le difficoltà da parte dei guru dell’editoria ad
accettare lo sguardo non allineato, non ideologico del sapiente che ha lottato, ad
esempio, per farci leggere Nietzsche come va letto, senza patine politiche. La porzione
dedicata a Empedocle, invece, ci fa capire il Colli esegeta della grecità, un vero
rivoluzionario, secondo cui con la ‘filosofia’ comincia il distacco, definitivo, dalla vitalità
della sapienza (“Quando appare l’ironia, si annuncia un pericolo di malattia per
l’intelletto. Per questo l’iniziatore della decadenza è spesso anche l’uomo dell’ironia,
come Socrate”).
Partirei dall’ostilità di Giorgio Colli – testimoniata anche da quanto scrive sui
quaderni colti come “La ragione errabonda” – verso l’accademia ‘ufficiale’. Da cosa
nasce questa ostilità e quale alternativa educativa propone Colli?
Alla radice del difficile rapporto di Colli con l’accademia c’è la convinzione, di matrice
burckhardtiana, della contrapposizione fra Stato e cultura, risolta teoreticamente
in quella fra potenza e grandezza. Se la potenza è impulso diretto verso l’esterno e
contro altre potenze che la ostacolano, la grandezza, invece, è pur sempre potenza, ma
volta alla scoperta dell’interiorità più profonda, che non si consuma quindi nella lotta, ma
trova soddisfazione nella conoscenza. Va da sé allora che la cultura non può seguire i
percorsi del sapere accademico, per natura statale, gerarchico, quindi violento,
oltreché legato ai mutamenti storici e di conseguenza alle mode. Coerente con
questa idea di grandezza la posizione antiaccademica di Colli non si è mai trasformata in
polemica oppure in ritiro dal mondo, ma è diventata azione culturale che si è espressa
sia nel lavoro editoriale sia nell’esercizio ininterrotto di una vera e propria paideia, cioè di
un’azione educativa capace di agire non su tutti, ma sugli individui che non possono
riconoscersi nel sapere statale. Con costoro Colli costruì un cenacolo, governato da philia

e da desiderio di conoscenza, che sostenne importanti progetti editoriali tesi a formare
una società ideale di lettori, dove studiosi, spesso giovani, potevano trovare sostegno ed
educazione. Basti pensare che l’edizione Nietzsche fu realizzata da Colli insieme a
Mazzino Montinari, suo antico allievo di liceo.
La cultura polimorfica di Colli ha fatto sì che ogni idea ‘filosofica’ s’incarnasse in un
progetto editoriale per tutti. La collana studiata per Boringhieri è un esempio forse
unico nella storia dell’editoria italiana. Nel libro lei fa riferimento a contrasti, però,
nati in Einaudi. Non tutti appoggiarono le idee di Colli, anzi… Come mai?
Sì, gli importanti progetti editoriali legati al nome di Colli hanno proprio la caratteristica
di dar conto del suo percorso teoretico – che si dipana sopratutto attorno allo studio dei
Greci antichi e di Nietzsche – e, al tempo stesso, di essere una risorsa per chiunque e per
sempre: non a caso il termine classico definisce sia la collana di Einaudi sia quella di
Boringhieri. Proprio per questo Colli incontrò molti ostacoli sulla sua strada: quanto
proponeva, infatti, non era destinato al consumo ideologico immediato, come ebbe
a dire Montinari, cioè non rispettava le culture idealiste, marxiste, cattoliche in
voga al tempo. In particolare furono Norberto Bobbio e ancora di più Delio Cantimori,
punti di riferimento della casa editrice Einaudi e della cultura italiana del dopoguerra, ad
opporsi alle proposte di Colli contribuendo di fatto alla separazione dalla casa editrice
prima di Boringhieri, poi di Luciano Foà fondatore, con Bobi Bazlen, dell’Adelphi. Furono
questi gli editori che permisero a Colli di estendere e di portare a compimento i suoi
progetti editoriali, in particolare quello su Nietzsche, già formulati negli anni einaudiani.
Agonismo (la “polis considerata quasi un teatro dell’ostilità dove il confronto
diventa la forma privilegiata, se non esclusiva, dell’espressione vitale”) ed enigma
sembrano essere per Colli la quintessenza della ‘grecità’, che va via via a
decomporsi con l’epoca ‘dei filosofi’ propriamente detti. Da dove arriva questa
intuizione?
Arriva dal coraggio di indagare la natura del logos guardando direttamente ai secoli
remotissimi da cui discende il nostro modo di pensare. Alla tradizionale prospettiva
del dopo, cioè ad Aristotele e alla ripresa che ne fa Hegel, Colli oppone la
prospettiva del prima, cioè tenta di situare lo sguardo sullo sfondo oscuro da cui
deriverebbe la sapienza. Da questo sfondo scaturirebbe l’enigma, espressione di quella
che io definisco polarità fra la ragione e ciò che ragione non è pur essendone condizione,
ossia fra logos e alogon: l’enigma infatti pone all’uomo la sfida agonica, conflittuale,
di decifrare il punto di vista del dio, il tutto, che per natura però è indicibile e

irrecuperabile. Quando l’enigma diventa dialettica, vale a dire puro e autonomo gioco
intellettuale, la ragione si separa dall’opposto da cui scaturisce degenerando in filosofia,
perdendo cioè la sua vitalità, per natura tragica: da qui l’illusione e la presunzione di
poter conoscere e controllare tutto. Questa di Colli è tanto un’originale lettura
dell’antichità greca e della storia della razionalità occidentale quanto il preludio a una
dottrina autonoma, cioè a filosofia dell’espressione.
Cosa intende Colli per ‘filosofia dell’espressione’?
Intende affermare che tutto ciò che viviamo è rappresentazione nel senso di
repraesentatio, cioè rievocazione di un’esperienza vitale, di una dimensione
extrarappresentativa destinata a restare nascosta, in cui soggetto e oggetto sono ancora
indistinti. Colli indica questa dimensione con il termine immediatezza, a negare
appunto la mediatezza, vale a dire l’attributo essenziale della rappresentazione, e
con essa la validità di ogni tentativo che si proponga di definire in positivo ciò che si
può presentare soltanto come un rimando della memoria e come un riferimento
imposto dal pensiero quando si avventura nella riflessione sul principio: una
riflessione che incrementa lo sviluppo logico-espressivo per sconfinare però nel silenzio,
non nel raggiungimento della definizione di quanto va cercando di recuperare. Questa
impossibilità linguistica può essere intesa come conferma della radicale alterità della
dimensione extrarappresentativa cui la rappresentazione necessariamente rinvierebbe
risultandone espressione: alterità alogica rievocata, ma non del tutto contenuta dalla
rappresentazione e per questo irriducibile a qualsiasi mediazione del logos.

In Empedocle il detto filosofico si esprime in poesia, come se la
ragione filosofica autentica seguisse altre vie grammaticali che la ‘logica’: è così?
Come mai?
È così. Empedocle può essere considerato uno specchio della filosofia dell’espressione
poiché esprime con la sua stessa esistenza, in cui non di fissa in alcun ruolo definitivo,

l’eterogeneità della rappresentazione rispetto alla sua radice. Un’eterogeneità che,
secondo Colli, riaffiorerebbe anche nei suoi versi, in cui l’assenza di astrazione darebbe
conto di una straordinaria ricchezza intuitiva, di una vita concreta che però rinvierebbe a
una radicale trascendenza cui è legata da un gioco senza fine di vicinanza e distanza.
Non a caso Empedocle sente la necessità di inventare nuovi termini, non logorati
dall’uso, che sappiano dare ospitalità alla sua conoscenza, fra tutti trovo
straordinario l’aggettivo amouson del frammento 74DK che indica l’estraneità alla
Musa, cioè la dimensione silenziosa. In più che la poesia di Empedocle sia linguaggio
della conoscenza lo dimostra il fatto che essa non si può ricondurre ad alcun canone
poetico, volta come è a restituire in maniera diretta, cioè senza alcun raddoppiamento
espressivo, la radice nascosta della conoscenza.
L’Empedocle ‘di Colli’ è nutrito, d’altronde, di poeti. Di Hölderlin, ad esempio: il suo
“Empedocle” è insediato da Colli nel progetto editoriale edito da Boringhieri. Che
valore ha la poesia nel pensiero di Colli, nel pensiero in assoluto?
Sopratutto è nutrito di Hölderlin, che per Colli ha vissuto, sentito e scritto come un greco,
come mostrano i suoi versi appunto e per questo ha reso possibile la comprensione di
Empedocle, svincolandolo dalle categorie descrittive e svalutative con cui è presentato
dalla storiografia ufficiale. La poesia in generale, e mi sento di dire anche per Colli, dà
conto del sentire che precede e sostiene il capire rappresentando la forma di
scrittura più vicina alla parola viva e feconda dell’oralità, cioè meno cristallizzata.
Sulla quiete di morte della scrittura filosofica e della scrittura in genere Colli si è
interrogato a lungo e quando ha deciso di scrivere lo ha fatto mostrando che la parola
scritta può essere vitale, per quanto non più viva: i suoi scritti, infatti, hanno uno stile che
non ha nulla a che fare con la scrittura saggistica, in genere standardizzata oppure
compiaciuta. In tal senso la poesia e la scrittura sono esse stesse pensiero e non meri
strumenti di comunicazione.
Oggi. Mi pare che di Colli si dica troppo poco. Come mai?
Per lo stesso motivo per cui non se ne è parlato in passato. I pensieri eretici hanno la
forza della sfida: accoglierla significa scegliere di misurarsi sul terreno
dell’esistenza, cioè di un’intellettualità che sia costume. Ciò non toglie che da un
punto di vista speculativo trovo interessanti tutti i tentativi, come quello di Mario Perniola
nel suo volume Estetica italiana contemporanea (Bompiani 2017), di porre il pensiero di
Colli in relazione con la contemporaneità, nella speranza che essi contribuiscano a far
conoscere un pensiero straordinario e vitale, capace cioè di fecondare altri pensieri.

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