Oggi Manu è stata qui da me, abbiamo trasmesso in diretta da computer e tra racconto, musica e chiacchiere il tempo è volato.
Zingarofilia. Seconda puntata. di Emanuela Miconi
“Erano magri et nigri”, così l’anonimo cronista descriveva gli zingari, al loro arrivo a Bologna intorno al 1420. Gli athinganoi, gli “intoccabili” nomadi dediti alla lavorazione dei metalli, alla chiromanzia e ai sortilegi, si
presentano ai confini dell’Europa occidentale in veste di pellegrini: muniti di falsi salvacondotti papali che consentono loro di transitare liberamente da un luogo all’altro, riescono a metter in atto quello che gli storici
hanno denominato Great Trick, il grande inganno perpetrato in barba alle leggi e alle norme più restrittive dei singoli Stati; in tal modo i nuovi arrivati eludono controlli e l’insieme di provvedimenti repressivi riservati
a vagabondi, mendicanti e a tutte quelle frange di popolazione in perenne condizione marginale che affollano, dalle città popolose alle contrade più remote, le strade dell’Europa dell’epoca; al contrario gli zingari godono di uno status sociale, quello del pellegrino per l’appunto, assolutamente protetto e tutelato.
L’abilità delle chiromanti zingare sconvolge e getta scompiglio nella tranquilla cittadinanza bolognese al punto che le autorità, non potendo allontanare i nomadi, a tutti gli effetti sotto protezione papale, si vedono
costrette, al fine di tutelare l’ordine pubblico, ad interdire il rapporto con gli zingari ai propri cittadini, nel frattempo accorsi in massa agli accampamenti fuori le mura per farsi leggere, nelle linee dei palmi, “la buona ventura”.
Decadute queste primitive forme di tutela ritroveremo gli zingari, in piena età moderna, divenuti oggetti di persecuzioni efferate e stanziati, nel tentativo di sfuggire alle violenze, nei territori più poveri e arretrati
d’Europa, e in particolare d’Italia. Nel Meridione escluso dai processi di unificazione nazionale proprio gli zingari, inseritisi al fianco delle miserabili popolazioni locali, contribuiranno ad arginare quella che dal grande etnologo Ernesto de Martino è stata definita “la perdita della presenza”. In una società contadina, relegata in limine a una intera civiltà in via di industrializzazione, l’individuo, irrimediabilmente tagliato fuori dai grandi mutamenti socio-politici, rischia di perder cognizione della sua stessa esistenza nel mondo.
E’ in questo contesto che gli zingari elaborano un loro modus vivendi e fondano la possibilità di una convivenza proficua e pacifica con chi, tra i Gagè, condivide la loro stessa marginalizzazione.
Saranno le donne, in primis, le attrici e il tramite di questa condivisione di vita: le romnia si aggirano per le allora poverissime montagne e le desolate campagne di Abruzzo, Molise, Basilicata offrendo i loro piccoli servigi: tra le altre cose sanno scrutare le linee delle mani, rincuorano, rassicurano e a ciascuno sono in grado di offrire una seppur minima speranza di vita migliore e il sogno, nonostante tutto e anche in quelle terre abbandonate e dimenticate, di un Buon Destino.
Le immagino presiedere, come la dolcissima Macci di cui gli etnologi hanno raccolto testimonianza, ai matrimoni, alle nascite e forse anche alle morti, aiutando chi resta a gestire la ferita dell’ennesima perdita, conseguente al trapasso doloroso che nel mondo zingaro non si identifica con l’univoca fine dell’esistenza terrena ma è sempre reiterato inizio, metamorfosi, vita ritrovata in forme nuove.
Ecco perché allora Carlo Levi ha potuto scrivere, non a torto, che “Cristo si è fermato a Eboli”: in quel pezzo di Italia ignorato dalla Grande Storia, tutto il rapporto con il sacro è traslato in mani femminili, a partire dal culto mariano per quelle Madonne nere definite magnificamente da Italo Calvino “Persefoni contadine”, e per arrivare infine alle misteriose donne girovaghe, ineffabili ma sempre presenti sulla scena della vita di chi
sembra non avere più alcun diritto di esistere.
Anch’essi ultimi tra gli ultimi, gli zingari hanno ritrovato un’immagine speculare di se stessi in Sara, la serva fanciulla, forse poco più che bambina, dalla pelle scura e gli ardenti occhi neri che leggenda vuole fuggita dalla Palestina divenuta teatro di persecuzioni efferate, al seguito di Maria Maddalena. Nell’esilio dalla Terra Santa, con lei si accompagnavano altre due donne: Maria di Giacomo e Maria Salomè, nelle quali un’antica tradizione ravvede rispettivamente la sorella della Vergine e la madre del discepolo prediletto, Giovanni, anch’egli testimone della Passione di Cristo. Lasciata Maddalena al suo eremo, la leggenda narra del loro naufragio sulle coste delle malsane e inospitali lande paludose della Camargue dove, stabilitesi a vivere, si diedero a convertire alla Parola evangelica genti ancora pagane. Esule dalla sua terra, condannata per peccati non commessi, Sara, la più miserabile, è stata eletta dal popolo Rom a propria Santa protettrice.
La statua che la rappresenta, abbigliata con un fasto da regina e sommersa di ex voto, il 24 maggio di ogni anno, nel corso del grandioso pellegrinaggio che riporta gli zingari da tutto il mondo nel sud della Francia, nella cittadina costiera di Les Saintes Maires de la mer, viene trasportata a braccia e bagnata nel mare da cui lei e le sue padrone arrivarono in quel giorno lontano di un tempo di cui ormai non si serba memoria.
Riportata la propria patrona, con una coreografica processione, nella cripta della chiesa che, si dice, abbia ospitato le sue spoglie, i Rom continuano a chiedere, come fanno ormai da secoli, grazie e miracoli, sostegno e protezione, o forse solo semplice ascolto alla Santa più piccola, misconosciuta ed emarginata della Chiesa cattolica.